L’arte di Incorpora e quel cammino verso l’avvenimento

  Sergio Cristaldi

 

Un artista che si è radicato in un territorio, che ha vissuto  un’appartenenza tenace, confermata fino alla fine: si potrebbe definire così Salvatore Incorpora, ostinatamente fedele ai suoi luoghi, mentre la sua reputazione scavalcava confini. In questo senso, Incorpora è  stato scultore e pittore eminentemente civile, impegnato ad arredare l’habitat  in cui viveva. Solicchiata, Fiumefreddo e soprattutto Linguaglossa portano il segno vistoso della sua opera, nei monumenti delle piazze, nelle porte e nelle vie crucis delle chiese (nessuna scissione, per lui, tra civile e religioso, vi è senz’altro la comunità e lo scenario urbano che la esprime). Felice anche il rapporto con la tradizione che qualifica già un assetto urbano, un paesaggio architettonico. Incorpora si innesta in questo precedente senza provare disagio, e opera fra coordinate cinquecentesche e barocche coniugando insieme innovazione e continuità, scarto e connessione: la mossa più azzardata non evade dalla costellazione visiva di partenza, la fa avanzare senza snaturarla. Da notare che questa sintonia dell’esperimento con l’eredità non comporta nessun ritardo espressivo, nessuna frenata nella riformulazione del linguaggio, di attualità estrema. In questo modo, senza averne l’aria, e forse senza pensarci troppo, Incorpora elude antinomie che parrebbero insormontabili: quella tra arte moderna e società, appunto, e ancora tra artista e grande pubblico.

Non c’è dubbio: la capacità comunicativa di Incorpora resta legata al suo peculiare umanesimo. Questo artista difende e afferma  l’uomo, e ciò significa, in termini di scelte espressive, estraneità all’anti-figurativo. Se il Novecento è stato, per tanti versi, il secolo dell’astratto e dell’informale, Incorpora ha voluto salvaguardare la figura umana,  sempre ravvisabile, mai dissolta. Certo, la sua è una mossa  deformante, espressionista: si impadronisce delle sagome per stirarle e slogarle, oppure per comprimerle in blocchi, oppure ancora per appuntirle  in volti a triangolo, aguzzi. È che gli uomini sono umiliati e offesi, e in ogni caso manchevoli, distanti dalla loro realizzazione compiuta, e Incorpora non sa evadere da questa constatazione, al contrario, è determinato a enfatizzarla, per questo tormenta i corpi, le espressioni, le pose, anche quando inquadra circostanze che dovrebbero riuscire serene. L’umanità che il suo segno restituisce è prossima al dissolvimento.  E tuttavia non scompare, non viene precipitata in un’assenza di profili. Siamo di fronte a una testimonianza lucida ma non disperata, ma intrisa di pietà. Ecce homo: una deformità solcata dal bisogno di forma, una disarticolazione che aspira a esser ricomposta.

È bene puntualizzarlo: la salvezza attesa non è l’arte stessa. Incorpora non si arroga una pretesa di trasfigurazione, continua a ostentare ferite. Eppure, strappi e squarci restano visibilmente piaghe di figli, di madri, di diseredati, di corpi insomma in cui un’umanità patisce; e dove ci sono  membra straziate, ma tuttora umane, c’è tensione verso un riscatto, clamorosamente chiesto o sperato in segreto. Pittura e scultura rilanciano questa tensione.

L’impegno di immanenza che  Incorpora ha assunto, come simbiosi con un ambiente, come adesione al dramma umano, questa serietà assoluta  di partecipazione non poteva perciò significare appagamento e tanto meno inerzia. Un antefatto esistenziale ha orientato la carriera di Incorpora, un episodio di enorme impatto, tanto che lo stesso artista lo ha tematizzato in un suo libro, Quell’andare,  ripresa tarda (1992) di un antico diario. Galizia, ultimi mesi della seconda guerra mondiale: per il soldato Incorpora, già   prigioniero dei tedeschi e adesso finalmente libero, si snoda il cammino verso l’Italia, lunghissimo. Solo chi ha piedi buoni conserva il diritto alla  meta, tutt’altro che scontato.  Ma la meta dà senso al sacrificio sfiancante, che non è preda di una deriva, si tiene invece alla direzione del ritorno, e a questa prospettiva di nostos attinge le forze residue. Il cammino, peraltro, non si concluse allora, con l’arrivo alla casa e il grido «È tornato». Quest’uomo destinato a radicarsi in Sicilia, tra Catania e  Linguaglossa, non era siciliano, veniva da un altrove (benché non remoto), la Calabria orientale; e precisamente veniva da Gioiosa Ionica, dove avevano operato il nonno, lo scultore della Locride Rocco Bruno Murizzi, e la madre, la figurinaia Gemma Murizzi, prima guida di Salvatore nell’abc del disegnare e dello scolpire. Quando il fantaccino si ricongiunge ai suoi, ha riguadagnato, appunto, Gioiosa. Poi, il trasferimento oltre lo stretto, in quella terra che costituisce un approdo, non la couche irrinunciabile di una mitica infanzia. Incorpora, dunque, è stato un reduce; ed è stato un migrante.

Depositandosi, stratificandosi, queste esperienze hanno suggerito all’artista la sua sigla qualificante, i piedi nudi, dilatati, enormi, ora gonfi ora scavati, una vera e propria firma, e mai omessa, e ribadita anche in calce a contesti estranei ai teatri di guerra e di migrazione, persino a margine di personaggi in riposo. C’è dunque un’intuizione e insinuazione di Incorpora  che non attiene soltanto alla belligeranza o all’espatrio,  ma segnala una condizione strutturale, attiva in pace e in guerra, nel moto e nella stasi: l’essere in cammino. E si capisce. Se l’uomo è deficit, incompiutezza, allora è un dinamismo verso ciò che manca alla sua realizzazione, dinamismo innervato in ogni attività, così come in ogni riposo o meditare.

La si incontra di nuovo, questa spinta, nella produzione sacra di Incorpora; capitolo davvero cospicuo della sua attività creativa, tanto da includere tutti i soggetti canonici di un certo rilievo. Che vengono sempre affrontati con impensabile naturalezza.  Un critico d’arte come Vittorio Sgarbi, nel recente bilancio L’ombra del divino nell’arte contemporanea, è tornato sulla difficoltà degli artisti odierni a sintonizzarsi con il sacro: dopo aver emesso gli ultimi bagliori nel XIX secolo, l’arte cristiana, nel Novecento, «lentamente si dissolve», e diviene sempre più rara la trattazione non pretestuosa, non patinata e stucchevole di un soggetto religioso. Si è perduta la chiave e gli autori stanno tra arbitrio e retorica. Tra le eccezioni, annoveriamo Incorpora. E c’è un genere che ha in particolare catalizzato la sua sensibilità, il genere-presepe, da lui reinventato con estro liberissimo, e tanto più stupefacente perché perfettamente in asse, nella sua originalità, con lo spirito della tradizione. La notorietà internazionale dei presepi di Incorpora costituisce il riscontro di una formulazione tanto ardita quanto riconoscibile. Certo, è impressionante la folla innumerevole di figure, anche entro dimensioni ridotte. Incorpora ha realizzato presepi di misura notevole, ne ha plasmato altri in miniatura, quasi  tascabili; i secondi non meno dei primi rigurgitano di questa moltitudine che si accalca verso la grotta della natività. È che nell’accorrere universale alla mangiatoia dove si trova il Bambino, si ripresenta il dinamismo umano, quell’andare che è di tutti, tradotto qui in un’attuazione marcata: un affrettarsi verso la salvezza, non più soltanto sperata, domandata nel grido, ma adesso salvezza-avvenimento, avvistabile, raggiungibile, anche se attraverso tortuosità faticose. Non meno caratteristici i materiali svariati, anche poveri: quelli di Incorpora sono presepi polimaterici, a cui possono concorrere, insieme alla terracotta, anche il das, il sughero, il legno di radici o di rami d’albero, le pietre, questo o quel fossile, le conchiglie. Tutta la materia è cooptata nel movimento;  come dire, l’intera realtà cosmica. Essa non è solo  la cornice in cui si situano l’irruzione di Dio e il suo riconoscimento da parte dell’uomo; o se si vuole, è una cornice coinvolta. Superamento del dualismo fra spirito e materia: non c’è qui residuo concreto che resti immune dal kairos, dal tempo propizio incuneatosi nella natura.

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