Il presepe nel Duomo a Warthenau

di Salvatore Incorpora

Gli alberi a Warthenau sono vecchi di secoli e rami stecchiti hanno cielo. Il gelo sul laghetto è palestra ai ragazzi, il sole riposa sopra nubi e sui carri fermi alla stazione, il prigioniero scarica carbone. Warthenau ha sangue ancora sulle vie per gli ebrei fucilati, miseria e dolore, uomini in montagna e donne in fonderia che fanno bombe per il tedesco invasore. 

A mezza strada dalla fabbrica, è la chiesa dal campanile alto.

Cattedrale di Warthenau

Il duomo di Warthenau

Il sacerdote riceve in canonica, dopo fatto infilare pantofole per non portargli neve, tanta v’è appiccicata negli zoccoli di legno e di juta. Piace l’idea offertagli d’un presepio italiano dentro chiesa, ma è titubanza per eventuale divieto tedesco. Nondimeno concede, spinto da coraggio e da commiserazione pure, l’unica cappella laterale della navata destra affinché ivi si lavori.

Nel lager, mille metri poco più, poco meno dal Duomo, è un sottoscala immondezzaio che i tedeschi concedono affinché si dia sfogo a creatività plastiche. Ogni giorno, sono così, a sapore di crete, pastori polacchi, pastori di Sila, schipetari d’Albania e soldati di Grecia, storpi e lupi cattivi, per il presepio di Warthenau.

I pifferi e le zampogne si moltiplicano e i pastori si rifanno spesso perché compagni d’internamento con un san Giuseppe o un pastore qualsiasi rubato e dato a ninnolo alla gente di Warthenau, laggiù in fabbrica, trova pane e sorriso di donna. Ogni giorno, sopra testa, dentro passamontagna che copre pure il volto, si nascondono per essere portati in fonderia, crete che vengono cotte alla buona fra le crepe dell’altoforno. Ogni giorno, sottobraccio al compagno per tema di scivolare e di rompere le piccole opere per il presepe di Warthenau, si portano e si riportano dal lager dopo, quelle figurine per sovrapporre il colore finale. Si colora ch’è ottobre, tutto novembre, poi, nel sottoscala, e dalla finestrella dalla grata forte, è vista di neve e il reticolato alto è tetro quanto la malora.

Si colorano pantofole e borse di massari, pecorelle e montanari, pecorai e donne alla fontana, angeli e Magi pastori e gente alla Grotta, tanto si colora… Arrivano, col freddo polacco, al più rigido cielo d’Europa, i giorni che precedono il Natale. E’ desiderio dire al nobile popolo di Polonia attraverso la gente di Warthenau, che quel lavoro simboleggia amore e che il Natale affratella.

E’ freddo sulla terra e gli zoccoli hanno piedi fra pezze bagnate, quando arriva nel Duomo un compagno di prigionia, napoletano col sorriso aperto e la canzone nel cuore. Sacchi di cemento carta utile, tavole e legna porta con sé e il muro della fabbrica l’ha scavalcato con gravi rischi. Compagni altri non risparmiano fatica e portano materiale e quanto altro utile per il presepe nel Duomo, agli amici di Polonia. Per sette giorni ogni prigioniero d’Italia porta in chiesa una tavoletta o un ramo secco o di cemento una carta, perché in chiesa c’è solo l’altare e i ceri e la miseria della guerra, ché neppure i morti hanno una messa. Sette giorni come formiche nel lavoro, perché fare si deve il presepe.

E’ riposo. La fabbrica tiene i forni alimentati per l’indomani e tutto è neve nella pianura estesa e infinita; le ciminiere sono alte nel cielo dal colore della cenere, il reticolato ha ghiaccioli di gelo dai fili spinati e il freddo dura da settimane. E fuori e dentro, è pure l’ora in cui per il mezzogiorno di Natale ci vuole poco. Un vecchio, oltre il reticolato, chiede; ha una torta da donare. Poi, una donna porge del pane, del vino un bambino. E’ gente e la guardia non vede neppure quando altra arriva con doni e altri dopo, nel pomeriggio.

A sera, sgabelli a far tavola, si beve il vino polacco e il pane e la torta non a sapere quante le porzioni. Il sapore della soddisfazione si mischia alla gioia,  ché, nella chiesa non lontana, gente di Polonia prega pure per gli italiani del lager, di tutti i lager, davanti alla Grotta di Natale dove sono decine di pastori usciti dalle mani di quel “civile operaio” ch’è il “pan artista” dell’Erbego e dove il paesaggio, gli anfratti e le gole, sono carta intrisa di creta adagiata su tavolette e legna varia portata da quei “cenciosi”, altri umani numeri che si chiamano fratellanza italiana e che sono, in giorni di tempesta, pastori anch’essi verso la grande stella.

 da “Quell’andare ( da un diario )” –  Eunoè – Catania 1992

verso la grande stella

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